martedì 17 luglio 2012

Horror Italiano Volume 3 - Prima recensione!

Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone Di artigiani, finestre che ridono e cannibali

da http://www.cinergie.it/?p=1157#.UAU5hqOvyLM.facebook


Sembra un po’ schermirsi Gordiano Lupi quando precisa che la sua pubblicazione non è accademica, ma ha un taglio molto popolare, divulgativo e conoscitivo. La sua Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone. Vol 3: Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie (Piombino, Edizioni il Foglio, 2012) si inserisce infatti in quella riflessione sul cinema che nasce “dal basso”, riprendendo la produzione dei cineasti alla luce di un salutare periodo di riflessione tra la prima uscita in sala e il culto che circonda oggi alcuni degli autori di quella generazione. Il che non significa necessariamente fare del revisionismo, quanto piuttosto aggiungere prospettive ad un dibattito ancora vivo e che oggi è in grado di dar voce, in modi e con mezzi diversi, anche al pubblico (dal lato della critica “professionale” è del resto sufficiente leggere le recensioni dell’epoca per avere ben chiaro l’evidente accanimento nei confronti di certi filoni in generale, e di alcuni registi in particolare).
Un volume perfettamente coerente con il più ampio discorso sui (sotto)generi che comprende le  retrospettive dedicate a tanto cinema di serie B (e giù giù fino alla Z) da parte di festival paludati; la rivalutazione, anche in ambito accademico, di filmmakers etichettati come “cult”; lo sfrenato amore per “quel cinema” da parte di colleghi registi ormai a loro volta di culto (Tarantino in primis); il lavoro sulle nicchie portato avanti da anni da progetti editoriali come Nocturno; il fandom e pure gli Aca-Fan, per usare un’espressione che Henry Jenkins utilizzava qualche tempo fa.
Lupi, che in molti conoscono per il suo lavoro di traduttore del blog dell’attivista cubana Yoani Sánchez (www.desdecuba.com/generaciony) e di direttore editoriale delle Edizioni il Foglio (www.ilfoglioletterario.it) ha all’attivo una consistente produzione letteraria e saggistica, anche in ambito cinematografico. In questo terzo volume aggiunge un ulteriore tassello al compendio sul cinema horror nostrano che con i primi due libri aveva già toccato il gotico (Vol 1.) e la produzione di Argento e Fulci (Vol. 2), e che prevede altre tre uscite dedicate a splatter, esorcistico e horror metropolitano (Vol. 4), gli anni Ottanta (Vol. 5) e dai Novanta ad oggi (Vol. 6).
Al centro del testo è la produzione di Aristide Massaccesi, tra erotismo e bizzarrie come Anthropophagus (1980) e Porno Holocaust (1981), così come il gotico rurale avatiano, il filone cannibalico con focus sulle produzioni di Deodato e Lenzi, tra artigianalità e improvvisazione. Come ricorda lo stesso Roger Fratter nell’introduzione al volume, a proposito di Joe D’Amato: “Di lui ho sempre apprezzato in modo particolare ‘l’arte di arrangiarsi’, cioè la capacità di realizzare film con pochi mezzi” (pp. 7-8). C’è un senso di amarcord nel ripercorrere com’era fare quel cinema, quell’essere stati in certi casi (com)presenti ai cineasti quando erano al lavoro sui film, magari, ricorda Fratter, incontrandoli nei corridoi delle salette di montaggio.
E se, come accade spesso in questi casi, la distanza nei confronti dell’oggetto d’analisi è più ridotta e il giudizio personale (condivisibile o meno) più marcatamente evidente, nondimeno è altrettanto chiaro che la riflessione di Lupi tenda a fagocitare generi e suggestioni in modo non dissimile da quello stesso cinema su cui si concentra. Ammissioni che, a distanza di anni, arrivano del resto per bocca degli stessi protagonisti, quei registi che, con un po’ di nostalgia, oggi rivelano senza pudore la loro filosofia: come hanno fatto Enzo Castellari e Sergio Martino in occasione dell’ultima edizione del Festival Cine-Excess (www.cine-excess.co.uk) a Londra (24-26 maggio 2012), quando hanno ampiamente discusso di “furti” e copie nei confronti del cinema americano, ma i cui prelievi erano effettuati con spirito avventuroso e, appunto, artigianale più che malizioso. Ricordi di un tempo in cui un film poteva essere costruito a partire da una sequenza d’azione che sembrava giustificare tutto il progetto. Un tempo in cui, se gli Americani  mettevano in scena gli inseguimenti con le Mustang, noi dovevamo metterci dieci Alfetta. Un tempo in cui “loro” avevano gli effetti speciali e “noi” i cascatori e le frattaglie. Una riflessione in parte oggettivamente vera, in parte mito. Come che sia, “Print the legend!”, ha detto qualcuno un po’ di tempo fa.

Nicolò Gallio

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